Da molto tempo desideravo misurarmi nuovamente con la scrittura forte e intensa di Dostoevskji.
“Gli occhi dei matti” - secondo spettacolo realizzato come attore-autore insieme ad Elena Bucci – era liberamente tratto da uno dei più bei romanzi di tutta la letteratura mondiale, “L’idiota”, e già in quel caso la scrittura appassionata e intimamente ‘necessaria’ di Dostoevskji ci aveva affascinati e intrigati, sedotti al punto di scegliere di affrontare una vertiginosa riduzione delle circa ottocento pagine del romanzo in poco più di un’ora di spettacolo per due soli interpreti.
Quell’esperienza ci ha segnati, e la fortuna dello spettacolo ha premiato il nostro entusiasmo.
Come tutte le antiche passioni, il tenace tarlo della scrittura di Dostoevskji ha continuato ad alimentare le mie fantasie.
La teatralità innata e potente delle sue visioni ed il fascino irresistibile dei suoi personaggi sempre tormentati hanno continuato a nutrire la mia ispirazione e ad esercitare un desiderio costante di confronto.
Ho dunque deciso di riaffrontare il baratro meraviglioso dei “tormenti e tormentucoli” dostoevskjiani, scegliendo il suo romanzo più ‘intimo’ e teatrale, la spassionata, audace, dolorosa ma anche grottesca confessione di un “io” imprigionato nella sua coscienza sporca, di un “io” in perenne e rovinosa guerra non soltanto con il mondo che lo circonda ma soprattutto con se stesso, un io di un'attualità sconcertante in un tempo – il nostro – in cui il senso della propria identità e l'autonomia di sentimento e di pensiero sono insidiati dall'omologazione e in cui il senso dell’etica interiore rischia di essere confuso con il moralismo spicciolo e intollerante di una società civile confusa e disturbata.
Mi ha colpito ed intrigato il ritratto di quest’uomo sofferente, meschino, arreso all’assenza di speranza e alla celebrazione della propria disistima al punto da risultare grottesco e pietoso più che repellente.
Mi ha riempito di interrogativi - che volutamente lascio aperti allo spettatore - il racconto di questa crisi interiore che sfocia in una tenerezza ruvida, spinosa e che apre uno spiraglio al tempo stesso strettissimo ed immenso alla compassione, alla comprensione e alla solidarietà, di cui anche il nostro tempo sembra aver tanto bisogno...
Ho voluto assecondare la musicalità interiore ed il moto perpetuo dell'inesorabile flusso di parole di questa confessione, lavorando a braccio libero con un pianista sensibile come Andrea, pronto a cogliere le sfumature dei sentimenti e capace di fare del suo strumento non un accompagnamento di sottofondo e di essere sempre un compagno con cui dialogare e improvvisare sulla linea di un sentire e di un divenire comune.
Marco Sgrosso
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